Migramorfosi. Apertura o declino
Incorpora video
Migramorfosi. Apertura o declino
La "migramorfosi", ovvero la trasformazione che le società subiscono a causa dell'immigrazione. L'Italia, pur avendo beneficiato dell'immigrazione, non ha investito adeguatamente, creando disuguaglianze. I salari bassi e la mancanza di politiche di integrazione hanno portato a sfruttamento. C'è una povertà etnica crescente, con un tasso di povertà assoluta per le famiglie straniere molto alto. L'approccio italiano è stato "low cost", senza investimenti in formazione o integrazione. Il dibattito non è "immigrazione sì o no" ma "quale immigrazione, quanta, come".
e non è un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. E' un'altra cosa che si può fare. Per le ragioni come spiegavo poco fa Ferruccio Pastore. Le migrazioni sono un tema che da 30 anni ci tengono impegnati. E' un fenomeno epocale che è cambiato, che sta cambiando, e con cui dobbiamo fare i conti. In Italia, sempre più spesso, immigrazione è un sinonimo di svantaggio, di marginalità, di povertà e anche di tante altre cose. Con la crisi economica dell'ultimo decennio, la situazione è anche peggiorata. E i divari iniziali tra i nativi e gli immigrati si sono allargati, sono aumentati per varie ragioni. Oggi ne parliamo con Ferruccio Pastore, che è direttore del Forum Internazionale Europeo di Ricerche sull'immigrazione, ricercatore su questa materia da qualche decennio, che ha coniato un neologismo, Migramorfosi, che è anche il titolo del suo ultimo libro, pubblicato con Einaudi. Quindi partiamo proprio dal libro. Io ho cercato di partire dal messaggio di Copertina, che vi leggo per intero, poi riparto da qui perché è una sintesi molto efficace del libro, secondo me, e del fenomeno. Sette milioni di immigrati sono la stampella demografica che ci ha permesso di tirare avanti per trent'anni, ma ne abbiamo approfittato senza investirci. Il risultato è un Paese più diseguale e diviso. Ora dobbiamo tornare ad aprirci perché ne va del nostro futuro. Ecco, Ferruccio Pastore, ci sono luoghi comuni, come dicevo prima, gli immigrati rubano il lavoro agli italiani, forse appartengono al passato. Ce ne sono altri invece che sono più attuali. Fanno i lavori che gli italiani non vogliono fare, è vero, forse sì, forse no, forse in parte, ce lo spiegherà. Comunque fatto sta che queste persone, questi milioni di persone, hanno tenuto in piedi demograficamente il nostro Paese, che ha le prese con quello che ormai chiamiamo inferno demografico, più che inverno. E' davvero così come siamo arrivati a questa situazione. Mi riferisco soprattutto all'aspetto del lavoro. Ti ringrazio Giuseppe, buon pomeriggio. Due parole sul neologismo intanto. Tu hai ricordato che appunto il titolo è una parola che mia conoscenza mai stata usata prima. Perché migramorfosi? Si parla moltissimo di migrazioni, di migrazione un po' a fasi alterne, incontano i cicli elettorali. Però rimane un tema centrale. Se ne parla molto, ma ci si lavora poco, ci si riflette poco, torno su questo tra un attimo. Se ne parla, e il tema pesa, perché le elezioni europee che avremo tra poche settimane, e le elezioni statunitensi di novembre, per citare due svolte, diciamo, punti di svolta imminenti, saranno in parte significativa decise da come gira la bussola del dibattito sulle migrazioni. Non in tutti i paesi è lo stesso. In Francia, per esempio, oggi, come in passato è un tema che pesa davvero tanto, non è detto che sia lo stesso in ogni paese. E però se ne parla sempre in maniera estremamente selettiva. In Italia, per esempio, ci concentriamo ossessivamente sulla faccia più drammatica e più scabrosa e più scandalosa del tema, che sono gli arrivi attraverso il mare. Non si parla quasi della grande massa sommersa dell'iceberg, che è quella da cui dipende il nostro futuro, come dico nella copertina e nel libro. Migramorfosi è un modo per cercare, per proporre, di rovesciare lo sguardo. Migramorfosi, nelle mie intenzioni, è la trasformazione che la società che riceve flussi importanti di migrazioni necessariamente e inevitabilmente compie attraversa. Quando una società complessa è interessata da flussi importanti e protratti nel tempo, come è stato per noi, di migrazione cambia. Può cambiare in tanti modi diversi. Interrogarci, essere riflessivi su questo cambiamento, è fondamentale per affrontare tutte le sfide che le migrazioni di massa portano con sé. Quindi migramorfosi è un tentativo di dire non parliamo di loro o non solo di loro, sempre che questa distinzione sia ancora praticabile. Ormai le due entità, il noi e il loro, sono sfrangiate e intersecate. Parliamo di noi, cioè cerchiamo di riflettere su come stiamo cambiando sotto la spinta di questa sfida e di questo fenomeno. Giuseppe Chiellino citava alcuni luoghi comuni. Fanno i lavori che noi non vogliamo più fare. Questo è un luogo inmarcescibile, un evergreen. Per certi versi è così, nel senso che gli economisti sono quasi concordi nel dire che c'è stata una complementarietà di fondo tra lavoro dei migranti e lavoro dei nativi, anche se ovviamente ci sono frange sacche in cui la frizione c'è, la concorrenza c'è. Però non dobbiamo mai dimenticare che l'equazione, loro fanno il lavoro x che il giovane nativo non vuole più fare, vale a determinate condizioni, in particolare vale dato un livello retributivo per quel lavoro. Quindi la questione della complementarietà o della concorrenzialità va sempre letta alla luce di un quadro economico più ampio. Questo è importantissimo nel caso italiano per spiegare la dinamica migratoria, perché come sapete i salari italiani e in particolare i salari per i lavori meno qualificati sono fermi da trent'anni sostanzialmente. Per quanto riguarda i lavori meno qualificati addirittura c'è stato un calo in termini reali negli ultimi decenni. E questo inevitabilmente, al di là anche della giusta necessaria e reale crescita delle aspettative dei giovani italiani sempre più qualificati, nonostante tutto, determina un necessario slittamento. Quindi questo è per dire che facciamo sempre attenzione a non accontentarci di equazioni semplici. Insomma, se alcuni lavori poco qualificati tra virgolette, per cui in realtà ci vogliono delle qualifiche come il lavoro di cura e l'esempio macroscopico, fossero riconosciuti di più e pagati di più, il sistema sarebbe meno bisognoso e meno esposto a questa necessità che permane. A proposito dei lavori di cura, mi viene in mente un aneddoto che racconti nel libro, quello della tua collega svedese. Ci vuoi raccontare traducendo anche in termini reali la questione che ha appena affrontato, cioè quella della retribuzione, della paga, perché è vero che a raccogliere i pomodori in campania ci sono solo gli immigrati o a fare i lavori di cura ci sono solo prevalentemente donne immigrate, però anziché darmi 4 euro all'ora, magari in nero, me ne dai 10 e con tutti gli accessori, magari qualche italiano in più a fare questo lavoro ci sarebbe, o no? L'aneddoto è un incontro con una collega scandinava di diversi anni fa, quando l'Italia cominciava ad affermarsi in Europa come il paese delle badanti, come un collega antropologo molto bravo ha intitolato un suo libro sulla migrazione dalla Moldavia all'Italia. Questo fenomeno intrigava i nostri colleghi, i ricercatori stranieri, in particolare questa collega mi chiedeva ma perché, io le chiedevo ma perché non succede da voi, a me sembrava abbastanza ovvio che in un paese in cui il carico di cura sulle donne native è molto importante, c'era questa opportunità, il mercato favorisse questo incontro e lei mi aveva risposto, diciamo un po' se volete una battuta d'effetto, lei mi dice che da noi non succederebbe mai perché noi la nostra merda ce la puliamo da soli. Poi chiacchierando con lei, credo, non voglio insistere su questa perché potrebbe essere uno stereotipo, ma una società fortemente intrisa di senso di responsabilità per le proprie azioni, per le persone ricorre meno facilmente un lavoro di cura per esigenze, poi forse non è proprio così, la quota di lavoro di cura immigrato è andata crescendo in tutta Europa negli ultimi decenni anche se da noi rimane particolarmente elevata. Questo non ha solo a che fare con questioni culturali, antropologiche, ha principalmente a che fare con la natura del welfare italiano che non dà quell'aiuto per esempio nell'assistenza agli anziani che altri welfare nazionali danno e che è stata la forza principale che ha determinato questa imponente, impetuosa anzi migrazione femminile prevalentemente da certi paesi. Quindi sì, quello è l'aneddoto, il tema del lavoro di cura rimane centrale per comprendere l'immigrazione in Italia, per farvi un esempio nel 2020 è stata lanciata l'ultima della lunga serie di regolarizzazioni di sanatoria italiane, nelle intenzioni doveva avere due obiettivi principali, l'eterno lavoro di cura e il lavoro in campo agricolo, perché l'agricoltura italiana si regge in parte sui movimenti stagionali di braccianti dall'estero o da altre parti del paese che ruotano da una cultura all'altra, la pandemia aveva bloccato queste rotte e quindi si pensava con la regolarizzazione di incentivare una popolazione immigrata già presente a riempire quei buchi. La regolarizzazione in agricoltura è stato un gigantesco fallimento, invece ha funzionato anche se con tante distorsioni nel campo del lavoro di cura. Quello rimane un tema centrale che si lega alla questione del futuro, perché la questione gigantesca, quella che sovrasta l'intero tema, è quella di quale sostenibilità demografica ed economica per un paese a rapido e massiccio invecchiamento come il nostro. Prima citavi le elezioni europee e le elezioni americane come due momenti importanti, decisivi per il futuro di due continenti in cui il tema delle migrazioni è centrale o rischia di essere centrale per varie ragioni. Ieri in un altro dibattito che moderavo sulle questioni europee, quindi si parlava dell'Europa e di come può evitare il declino, il tema delle migrazioni è tornato sul tavolo e ne abbiamo parlato. Tu scrivi che abbiamo approfittato senza investirci di questo fenomeno e risultato un paese diseguale diviso. Riguarda solo l'Italia? E' la prima domanda? O riguarda anche l'Europa? E' immagino in maniera differenziata, non per tutti i paesi. Questo non so se possiamo anche dire perché c'è questa differenza. Tu nel libro parli di povertà etnica. A che punto siamo? Perché povertà etnica? La prima domanda è la questione dell'investimento nella trasformazione. A mio modo di vedere è centrale. Quello che conta è riflettere su come stiamo vivendo affrontando la migramorfosi. Ci sono tanti modi di affrontarla. L'Italia ha approfittato di una necessità senza investirci. Con una collega economista, Claudia Villosio, qualche anno fa, quando l'Italia era al top della sua attrattività rispetto all'immigrazione per lavoro straniera, ci siamo resi conto che l'Italia era l'unico tra i grandi paesi europei in cui la correlazione tra sviluppo, PIL, crescita del PIL e crescita dell'immigrazione non era positiva. Cresce il PIL, cresce l'immigrazione, cresce il PIL, cresce l'immigrazione, come da leggi economiche, ma era inversa. L'immigrazione era una crescita molto forte anche in assenza di una crescita del PIL. Cioè il PIL era stagnante nel primo decennio o poco più. Quindi queste due grandezze che normalmente sono abbinate vanno di pari passi, erano dissociate. Il modo in cui abbiamo spiegato questa cosa era con un modello di immigrazione che avevamo chiamato low cost. Cioè un'immigrazione che costava poco ai datori di lavoro, nel senso che le imprese di questo paese non hanno mai investito in formazione all'estero, non sono mai stati chiamati o non hanno mai spontaneamente cercato di assumere un ruolo attivo o proattivo per una miglior gestione. Low cost per i lavoratori, appunto perché c'era tutto sommato una complementarietà, cioè non c'era per fortuna anche da un certo punto di vista un'attenzione sul mercato del lavoro. Low cost anche per lo Stato, perché lo Stato non ha mai investito davvero né in costruzione di un'infrastruttura per selezionare i lavoratori all'estero, formarli all'estero e portarli qui, né in integrazione. Questo fatto, questo basso costo del modello italiano allora, spiega in parte forse perché ci potesse essere questa relazione strana tra PIL e migrazione. Cioè una migrazione che cresce nonostante la torta rimanga sempre più o meno quella. L'altra spiegazione è quella demografica, cioè un paese le cui fila di persone attive sono sempre più piccole. Ecco questo è importante e ci aiuta a vedere due modi fondamentalmente distinti o due poli nel modo di affrontare le migrazioni. C'è una migramorfosi impegnativa, impegnata, proattiva in cui si investe per cercare di fare di questo fenomeno che è sempre risorse e problemi insieme, non è mai solo risorso, solo problema, il più possibile uno risorse. E dall'altra una migramorfosi una via bassa diciamo alla migrazione e alla migramorfosi che è un po' quella che abbiamo scelto. E quindi quanto si investe collettivamente per gestire una trasformazione è fondamentale. Questo vale per qualsiasi grande trasformazione, oggi siamo in un'epoca di transizioni sistemiche, geopolitiche, ecologiche, demografiche. In particolare la transizione demografica di cui l'immigrazione è un termine ineliminabile richiede investimenti per essere utile e per essere il meno traumatica possibile per chi la vive in prima persona innanzitutto ma anche per chi la riceve e ne partecipe comunque. Ecco, il terzo punto del messaggio di Copertina è, ora dobbiamo tornare ad aprirci perché ne va del nostro futuro. E poi in un'altra parte del libro verso la fine parli dell'interesse nazionale facendo anche un po' una riflessione storica su questa espressione. Ci spieghi perché bisogna aprirsi e poi soprattutto in che modo, quali errori bisogna evitare? Il perché ci si debba aprire è il fatto che le energie del Paese si stanno riducendo, si stanno esaurendo, intendo le energie demografiche. E' questo un Paese che subisce un salasso molto importante e costante di forze giovani che si vedono indotte, se non costrette, a lasciare il Paese. E' un fenomeno di lunghissima data. L'Italia in realtà è sempre stata un Paese anche di emigrazione. Nei rivoli, anzi nemmeno tanto rivoli, di emigrazione continuavano anche quando tra fine secolo scorso, inizio di questo secolo, eravamo ai massimi mondiali come volumi di emigrazione rispetto alla popolazione. Però negli ultimi anni è diventato un fenomeno davvero preoccupante, nel senso che interessa anche fasce non solo di giovani, ma di giovani adulti già inseriti nel mondo del lavoro. Negli ultimi tre anni sono emigrati 20.000 medici dall'Italia, creando un gap, un vuoto, che è una delle cause, non l'unica perché c'è una causa di bilancio pubblico ovviamente, delle famose liste d'attesa. Che sono uno dei temi al cuore di questa campagna elettorale. Quindi, sì, diciamo, il perché serve a tornare ad aprirci credo è abbastanza palese. E non è neppure controverso questo fatto. Cioè, la cosa interessante, diciamo, il festival parla di dilemmi, no? E ce ne sono tanti, siamo in un'epoca dilemmatica per eccellenza, io credo. Rispetto all'immigrazione, la cosa interessante è che il dilemma immigrazione in Italia non è mai stato posto in termini immigrazione sì o immigrazione no. Nel senso che neppure le forze culturali e politiche più ostili all'immigrazione hanno mai invocato l'immigrazione zero. Il fron national delle origini era molto imperniato su parole d'ordine di questo tipo, immigrazione zero. Nel dibattito politico di paesi importanti dell'Unione Europea, dell'Est, Europa, ma non solo, appunto si parla di chiudere completamente i flussi, si parla di espulsioni di massa. In Italia, diciamo, c'è sempre stata una consapevolezza della necessità di un certo livello di immigrazione. Il dilemma è sempre stato posto in termini più relativi, insomma, immigrazione quale, quanta, come, quindi, appunto, quale migramorfosi. E tuttora è così, insomma, no? Il governo Meloni, il governo in carica, ha varato, intanto è tornato, diciamo, a un quadro di programmazione dei flussi legali su base triennale, quando da molti anni si era abolito, diciamo, questo orizzonte triennale di programmazione. Il governo Draghi? No, no, diciamo, il primo decreto triennale è stato comunque questo governo. E poi ha, diciamo, scritto, messo per scritto, diciamo che nei prossimi tre anni, da questo ai prossimi due, si faranno entrare 450.000 lavoratori e lavoratrici tramite il famoso decreto flussi. Quindi, diciamo, è un riconoscimento, non hanno battuto la gran cassa su questo, naturalmente, cioè è stato tenuto abbastanza sottotraccia, ovviamente una certa constituency, quella dei datori di lavoro che chiedeva questo a gran voce, l'ha saputo e probabilmente l'ha apprezzato, ma il grande pubblico, forse non se ne nemmeno accorto, non c'è stata molta pubblicità intorno a questa scelta. Il problema è che, diciamo, dire faremo questo senza porsi il problema di come lo farai, fa sì che difficilmente, poi questo si traduca in un effettivo cambiamento dell'andamento dei processi migratori. Voglio dire che il decreto adesso non voglio entrare troppo nel tecnico, ma le regole sull'ingresso per lavoro dall'estero rimangono fortemente disfunzionali, cioè rimangono basate su un datore di lavoro che conosce un lavoratore, lo chiama nominativamente dall'estero. Questo non è mai accaduto e non accadrà mai, perché solo grandi imprese che hanno la possibilità di aprire, come faceva Renaud negli anni 60 ad Algeria, di aprire un centro di formazione e reclutamento e poi fa venire le persone. Le piccole imprese italiane o le famiglie che sono tra i principali datori di lavoro immigrato in Italia, ovviamente non hanno la possibilità di fare questo, quindi quello che succede è che si attivano dei cortocircuiti, paralegali o illegali, per cui si chiama una persona che in realtà è già qui e poi in certi casi questa persona torna, chiede il visto e riesce a rientrare, ma ovviamente è macchinoso e difficilmente succede davvero, oppure si lascia il campo a imprenditori più o meno spregiudicati, che possono essere italiani o della stessa nazionalità del migrante, che mettono su una ditta fittizia che chiama una persona che conoscono bene, ma per reti diciamo personali, amicali, clientelari e che poi entra, ma poi non va effettivamente a ricoprire quel posto di lavoro. Quindi diciamo questo per dire che proclamare che torniamo ad aprirci non basta, bisogna appunto investire, bisogna investire in una infrastruttura di gestione delle migrazioni, che io credo per un paese in invecchiamento, un'infrastruttura vitale come gli acquedotti, come le reti elettriche, come le reti di trasporto, come la scuola pubblica, cioè è un'infrastruttura che serve appunto all'interesse nazionale ed è ovviamente paradossale che un orientamento politico che mette l'interesse nazionale, una forza politica che mette l'interesse nazionale al centro della propria retorica poi in realtà non dia seguito. E l'altra, scusa se mi dilungo un po', ma l'altra questione che entra in gioco qui è la natalità insomma, perché una certa retorica mette in contrapposizione la leva migratoria con la leva natalista. Noi sì adesso faremo entrare questi perché ci servono nell'immediato ma puntiamo a far crescere la natalità. Allora ci sono dei paesi che hanno preso più o meno sul serio questa cosa, per esempio l'Ungheria di Urbán che ha investito e sta investendo una parte significativa delle risorse pubbliche e effettivamente hanno una natalità che tiene sorprendentemente rispetto ad altri paesi europei. Non è quello che sta succedendo qui insomma, bonus, più o meno una tantum senza la certezza che, segno unico eccetera, senza che questo entri nel paesaggio mentale delle giovani generazioni che sa di poter contare per dieci anni, vent'anni su questo tipo di sostegno, hanno poco effetto. E in ogni caso anche se ci fosse una politica natalista seria, dai frutti tra vent'anni, cioè se l'impennata delle nascite, a parte il fatto che diciamo le donne italiane in età fertile, in età diciamo riproduttiva, sono poche perché è già una cohorte ristretta, se anche tutte passassero da 1,18 figli ciascuna, diciamo ovviamente una media, a 2,5, quel sovrappiù di bambini si affacerebbe sul mercato del lavoro tra venti, venticinque, trent'anni naturalmente, quindi il ricostituente arriverebbe tra venticinque o trent'anni. C'è il problema di arrivare, c'è il problema di gestire questo interregno, anche a messo appunto che la svolta natalista si faccia davvero cosa che non sta avvenendo. Quindi in una parte del libro parli proprio della necessità di combinare queste politiche sulla natalità con le politiche migratorie per le ragioni che hai appena detto. Ti chiedevo anche degli errori che bisogna evitare, qualcuno lo hai già indicato, forse ce ne sono altri, di errori che si possono evitare in questo percorso, in questa combinazione di politiche? L'errore principale è di propinare una narrazione falsa delle migrazioni come di una minaccia a priori, a prescindere che è stato l'errore fondamentale culturale e politico della storia italiana negli ultimi almeno vent'anni. Ed è stato un errore abbastanza generale, ovviamente ci sono stati e ci sono quelli che, uno dei primi sociologi che parlavano di queste cose, Luigi Manconi parlava di imprenditori politici del razzismo, ci sono forze politiche che hanno investito, Luigi Manconi e Laura Balbo, non mi veniva l'altro nome, hanno investito su questa carta per rintuzzare e arginare a breve un consenso, la cosa ha funzionato in parte per alcuni, per una certa fase almeno. Dall'altra parte c'è stata un insieme di forze progressiste, liberali e anche cattoliche che non sono state in grado di contrapporre una narrazione altrettanto convincente, forte e pervasiva, cioè si sono attestati su una narrazione di rimessa sempre più timida anche perché si è diffusa la convinzione che se parli di migrazione in campagne elettorale perdi, cosa non sempre vera. Ci sono esempi di leader che hanno in certe fasi provato a proporre una narrazione diversa senza subire necessariamente emorragie di consenso rapide. Questo è il primo errore indubbiamente, anche questo è un errore nel senso che genera un quadro anche per gli stessi politici di opportunità contraddittorio, se tu hai l'esigenza di far arrivare delle persone e di farle rimanere e proponi una narrazione che racconta quel fenomeno lì come una dannazione, un problema ce l'hai, stai segando il ramo su cui sei seduto in una certa misura. Ogni tanto spesso uso anche la metafora della malattia autoimmune, cioè noi abbiamo una reazione immunitaria contro qualcosa di cui in realtà abbiamo bisogno e questa non è mai una condizione felice, questo è un errore. Un altro errore è pensare che una volta che la persona è entrata e ha trovato uno straccio di lavoro, perché sono perlopiù stracci di lavoro, la questione sia finita lì, sia risolta lì, cioè il tema dell'integrazione. La parola è controversa, adesso non entro sulle disquisizioni terminologiche, nel libro provo a dire qualcosa, ma la questione è delle condizioni socioeconomiche in cui quella persona, quella famiglia e i suoi discendenti potranno vivere negli anni e nei decenni. L'errore è stato quello di rimuovere questa questione dal dibattito, dal quadro. E la questione dell'integrazione è anche questa, centrale e purtroppo drammatica, ne parlavamo prima con il Dottor Chiellino, questo Paese ha conosciuto una fase appunto di migrazione molto massiccia, molto impetuosa e anche sostanzialmente non prevista, perché non c'è stata una pianificazione, si può dire, credo, che il Paese è stato colto di sorpresa negli anni 80-90 da questa trasformazione, poi la sorpresa è sempre meno scusabile, diciamo naturalmente, quindi la mancanza di lungimiranze di programmazione è sempre meno scusabile. Nei primi tempi c'è stato il tentativo di imbastire una politica di welfare mirato, quindi di integrazione, che però non è mai stata veramente significativa, ma soprattutto l'integrazione spontaneamente è andata avanti, è andata avanti essenzialmente per effetto di forze di mercato, cioè di un mercato del lavoro che sosteneva un'inclusione progressiva, il tasso di attività e di occupazione degli stranieri era in quel periodo più alto di quello dei nativi, di quello delle persone nate qui da persone nate qui, che era abbastanza un unicum, perché negli altri Paesi europei al tempo era il contrario, cioè il tasso di attività degli immigrati, che avevano un profilo diverso, la storia diversa, era più basso in media di quello dei nativi, quindi noi avevamo un vantaggio competitivo che in effetti ha fatto sì che piano piano la distanza diminuisse, questo a livello di grandi numeri, poi ovviamente ci sono sempre nelle medie tendenze divergenti. Le altre grandi forze che hanno fatto sì che in quegli anni, pur in assenza di una vera politica di integrazione e di una volontà politica di favorire questa inclusione, a meno di una volontà politica continuativa e decisa, l'altro fattore che ha fatto sì che comunque si andasse avanti è stato lo stato sociale, la scuola pubblica e la sanità pubblica essenzialmente, una scuola pubblica e una sanità pubblica che a differenza che in altri Paesi era estremamente inclusiva, al punto che non ha mai abbandonato una linea, almeno sulla carta ma anche abbastanza nella sostanza di inclusione dei bambini e dei malati anche qualore irregolari. Poi cosa è successo? 10-15 anni fa il mondo e poi l'Italia è entrato in questo tunnel di crisi a cascata, la policrisi di cui si parla ormai quotidianamente, quindi prima la crisi finanziaria, i muti subprime in Stati Uniti che si riverbera qui, la crisi del debito sovrano, lo spread, poi nel 2011 l'ondata di instabilità politica che investe il Mediterraneo che prima vediamo ottimisticamente, poi si rivela piena di insidie contro rivoluzioni, guerre, poi la pandemia naturalmente con il gigantesco effetto, insomma l'impatto socio economico e poi l'inflazione, la crisi energetica, la guerra. Tutte queste crisi, con alcune eccezioni per esempio, hanno colpito gli immigrati e gli stranieri più di quanto abbiano colpito noi nel senso di nativi bianchi o anche migranti europei, persone provenienti da altri paesi dell'Unione. Ci sono alcune eccezioni nel senso che alcune delle professioni essenziali di cui abbiamo cominciato a parlare durante la pandemia avevano una concentrazione di persone immigrate significativa e hanno tenuto un po' meglio. Però complessivamente queste crisi a cascata hanno colpito asimmetricamente, questo ha fatto sì ovviamente due cose, che passi avanti che erano stati fatti sul terreno dell'integrazione sono stati rifatti all'indietro, cioè c'è stato un processo di deintegrazione relativa, di disintegrazione localizzata e relativa. L'altra cosa, se c'è uno shock e qualcuno, se lo prende in faccia e tu sei accanto, quello che si prende in faccia ammortizza lo shock che avresti potuto subire tu direttamente. Questo vuol dire che il fatto che ci sia stato un impatto differenziale della poli crisi vuol dire che gli immigrati hanno in qualche misura protetto dallo shock i nativi. Questo perché erano concentrati, per quanto riguarda per esempio la grande recessione, in settori manufacturieri dove gli italiani c'erano molto meno, oppure perché erano concentrati e sono concentrati in fattispecie contrattuali molto meno garantite. Quindi se un'azienda deve ridurre, deve licenziare, quelli ne fanno le spese prima. Ecco adesso non voglio dilinguarmi, però questa è l'altro grande errore che credo persiste, cioè far finta di non vedere tutto questo. Vi do solo una cifra per concludere sul tasso di povertà assoluta. Il tasso di povertà assoluta che è sostanzialmente calcolato dall'ISTAT come capacità di pagarsi un paniere di beni essenziali minimi a livello individuale o di famiglia, per le famiglie di soli italiani era prima della pandemia, adesso potrei sbagliare, di qualche decimale, ma insomma intorno al 4%, è salito, adesso è ridiceso un po', sta risalendo per effetto dell'inflazione, siamo tra il 6 e il 7 di agosto. Per gli stranieri era al 25% erotti prima della pandemia, è salito al 32% e continua a salire, adesso siamo al 35,6% credo. Questo vuol dire che molto più di un terzo delle famiglie straniere, questo è l'indicatore, è in condizione di povertà assoluta. Tra i minorenni, se si calcola rispetto alla condizione dei singoli minori di 18 anni, siamo oltre il 45% per i bambini e ragazzi e ragazze stranieri. È un dato che è allucinante ed è vastante, ma è un dato di cui assolutamente non si parla. È un dato che c'è nei dati Istat, c'è nel rapporto annuale, non messo in evidenza perché è un dato molto imbarazzante, scomodo, interroga chiunque governi questo paese ovviamente. Un altro grande errore è non vedere questo e non porsi la questione, poi fare qualcosa è difficile ovviamente, però tante cose si potrebbero indicare e sono facili da pensare. Quella che definisci povertà etnica alla fine questa situazione che hai descritto. Il governo italiano, di qualche giorno fa l'ammissione da parte del Primo Ministro inglese che probabilmente vista la concomitanza con le elezioni e vista la situazione nel Regno Unito, i centri che il Regno Unito ha chiesto di creare in Rwanda per gli immigrati, per i richiedenti asilo, rischiano di restare vuoti. Che idea ti sei fatto di questi due strumenti, Piano Mattei e centri in Albania? Non è una questione di principio ma di reale politica. Piano Mattei è stato fino a pochi giorni fa in realtà una scatola vuota, sostanzialmente un assetto istituzionale con una centralizzazione di alcune leve decisionali in capo alla Presidenza del Consiglio e lo spostamento di alcune poste di bilancio dal fondo per il clima, da altri fondi che non è che siano di importanza secondaria. Adesso cominciano a emergere delle idee, delle ipotesi su quali sono i paesi, il tipo di investimento prioritario, la retorica è quella di un approccio paritario, non coloniale, anti imperialista, parole d'ordine che hanno un'attrattiva sia a destra che a sinistra. In realtà i paesi prioritari sono paesi per le internazionali idrocarburi, non per il paese, o meglio, anche per il paese, nella misura in cui riteniamo che una priorità del paese sia trovare alternative per rifornirsi di energie fossili data la chiusura del canale russo. Può essere un'accezione di interesse nazionale, ovviamente molto a breve periodo, si spera, visto che teoricamente dai fossili dovremmo uscire. Questo è il piano Mattei. Poi ci sono vari paradossi che colpiscono, uno appunto è quello di proclamarsi, non credo che in Africa ci credano moltissimo alla retorica sul paritario, sull'approccio paritario. Però proclamarsi al fiere di un approccio nuovo che è vitale, urgente nei confronti dell'Africa, e nello stesso tempo fare una mossa prettamente coloniale come il piano Albania in realtà. Cioè, chiedere a un'ex colonia di fare un attimo da scarica, o perlomeno da deposito per persone che a noi qui ci danno fastidio, e di prendersele mentre noi decidiamo cosa farne. Questo è l'accordo di taglia d'ania. Obiettivamente, senza, diciamo, detto un po' provocatoriamente, ma credo che è abbastanza oggettiva la cosa. Quindi, il giorno dopo l'annuncio, c'era un'intervista a Edirama, credo sul Corriere, che candidamente diceva, va beh, noi lo facciamo gratis perché siamo grati all'Italia. Poi, lui un volpone, insomma, probabilmente avrà una convenienza, non solo politica. E poi diceva, sappiamo benissimo che non servirà perché è più complicato di così per espellere le persone, bisogna affrontare dei nodi un po' più strutturali, se volete ne parliamo. Quindi, diciamo, è il contraente stesso che ha il giorno dopo l'annuncio smascherato il gioco, ed allora, diciamo, il piano è stato un po' rifinito, il tiro è stato un po' aggiustato, ma rimane quello, cioè rimane un piano. Per trovare una collocazione temporanea a persone che altrimenti sarebbero venute a chiedere asilo qui, con scarse probabilità di ottenere l'asilo, cioè che vengono da paesi pseudo ritenuti sicuri, attichettati come sicuri, poi, questo se ne può parlare, ecco. Una quota, diciamo, non mi ricordo, sono 9.000 all'anno, nella migliore delle ipotesi, le persone che dovrebbero essere stoccate in Albania. 9.000 all'anno su arrivi che l'anno scorso sono stati 105.000, quelli da paesi con un basso tasso di riconoscimento, non lo so, non ho fatto il calcolo, ma saranno metti più della metà, 60.000. Quindi, diciamo, comunque assorbirebbe una parte, non tutto, diciamo, questo flusso scomodo che non vogliamo ammettere qui. Ovviamente la finalità è comunicativa, è simbolica, insomma, cioè comunicazione col proprio elettorato innanzitutto. Comunicazione con gli altri governi europei che ci stanno cascando o fanno finta di cascarci, nel senso che Ursula von der Leyen ha dichiarato che questo è un modello interessante. E una decina, almeno, forse dozzina, di paesi membri hanno firmato una lettera in cui dicono, bello quello che sta facendo l'Italia, nella prossima legislatura europea vogliamo anche noi sperimentare qualcosa del genere. Andrebbe benissimo se fosse roba seria, insomma, no? A parte il fatto che una delegazione di partiti dell'opposizione è andata in Albania due giorni fa e ha visto che non c'era niente, insomma, hanno fatto un po' un... insomma, ma giustamente il loro mestiere era un po' di cancana intorno a questo mancato, diciamo, inizio dei lavori, però anche se il meccanismo funzionasse a perfezione, anche se effettivamente, diciamo, la catena di, diciamo, pre-deportazione in Albania e poi rimpatrio di quelli respinti funzionasse, poi rimane il grosso intoppo, no? Della rifiuto dei paesi d'origine di ammettere numeri importanti come sarebbero di persone espulse dall'Italia, perché oggi i paesi che ammettono persone espulse dall'Italia in numeri significativi sono l'Albania stessa, che però, insomma, diciamo, posto che per un paese, per qualsiasi paese del mondo, compreso il nostro ovviamente, riammettere persone espulse da un altro paese non è una cosa molto popolare. Immaginate se il governo italiano accettasse decine di migliaia o centinaia di migliaia fatte le proporzioni di giovani espulsi dalla Cina un domani o da un altro paese, perché poveri, perché privi di mezzi di subsistenza. Io credo che avrebbe grandi tassi di consenso il governo che fa questa che, in termini tecnici, si chiama riammissione passiva. E, naturalmente, nessun paese tra quelli verso cui noi vorremmo espellere è contento di farlo, quindi l'Albania accetta numeri significativi anche perché poi è facile tornare di qua, insomma, direttivamente. La Tunisia accettava numeri per il piccolo paese che è significativo, si vede come stanno messi, insomma, e peraltro il caso tunisino è interessante perché è un paese che ha, diciamo, comprato in pieno la retorica che noi proponevamo loro. E quindi ha lanciato una campagna forte, molto più pesante e violenta nei confronti degli emigrati africani in Tunisia, mettendosi così in una situazione molto difficile. E' stato arrivi che, nonostante tutto continuano, si sono impegnati a bloccare le partenze verso l'Italia. In effetti gli sbarchi in questi primi mesi del 2024 sono calati del 60-70%. Ma tutto questo a che costo, a che prezzo? A prezzo di un'evoluzione, di un'involuzione autoritaria in Tunisia che ormai è allarmante e che rischia poi di produrre flussi forzati molto più importanti di quelli che vorremmo evitare. E l'altro costo ovviamente è quello di un degrado, di un peggioramento drammatico delle condizioni degli africani subsariani che avevano in Tunisia. Questo, diciamo, qui non è che sia in capo alla priorità di nessuno, ma è anche un aspetto da tenere presente. Benissimo, siamo andati un po' oltre il tempo che avevamo a disposizione. Io ringrazio Ferruccio Pastore per la presentazione del libro che vi assicuro ho trovato molto interessante. In genere non faccio spot, però questa volta mi sento di farlo. Ringrazio a voi per l'attenzione e al prossimo appuntamento.
{{section.title}}
{{ item.title }}
{{ item.subtitle }}