C(u)ore Business
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Possiamo riumanizzare il lavoro e trovare motivi per rimetterci il cuore, possiamo addirittura amare quel che facciamo? Possiamo riscoprire la passione per il lavoro in un modo che valorizza il nostro io e amplifica il nostro benessere? A queste e ad altre domande ha risposto Riccarda Zezza, imprenditrice CEO Lifeed e autrice del libro: “Cuore business. Per una nuova storia d'amore tra persone e lavoro”, da cui prende il nome anche la conferenza.
Sottotitoli creati dalla comunità Amara.org Buon pomeriggio, buon pomeriggio a tutti e benvenuti a questo appuntamento del Festival dell'Economia di Trento. Oggi siamo qui per parlare di lavoro. Lo faremo soprattutto concentrandoci su tutti quegli aspetti che in realtà hanno messo proprio nell'ultimo periodo in particolarmente in crisi la nostra relazione con il mondo del lavoro e lo facciamo soprattutto a partire da un libro Cuore business per una nuova storia d'amore tra persone e lavoro scritto da Riccarda Zezza, CEO e fondatrice di Lifefeed, imprenditrice e nonché anche founder di MAM, la maternità e un master. Benvenuta innanzitutto. Grazie Silvia e grazie Silvia Pagliuca, giornalista del sole 24 ore di Alleyoop e anche tante altre cose. Allora io direi Riccarda se sei d'accordo prima di iniziare proprio ad entrare nelle tematiche del libro che sono tante è un libro oggettivamente che io vi consiglio di leggere, di portare con voi, di tenere sulle schevannia soprattutto dell'ufficio magari diciamo di dare una rilettura di tanto in tanto anche appunto mentre si va al lavoro perché in realtà ci sono tantissimi spunti però io vorrei partire in maniera un po' inusuale coinvolgendo innanzitutto voi. Vi chiedo, quanti di voi hanno visto, si ricordano di aver visto un film che si chiama Ladyhawk? Siamo intorno agli anni 80, metà degli anni 80, per cui la componente generazionale secondo me qui conta. Michel Pfeiffer, Ruth Grauer. Allora, allora, due con Michel Pfeiffer. Dai, dai, esatto. Allora, perché in realtà vi ho chiesto questa cosa? Non vogliamo oggi parlare di cinema, comunque insomma non solo. Perché in realtà il libro di Ricarda trae proprio ispirazione da questo film, che è un film che racconta una storia d'amore straordinaria straordinaria nel senso che è impossibile da realizzarsi, in quanto i due protagonisti difficilmente riescono a incontrarsi. L'uomo diventa lupo durante la notte mentre invece la donna diventa un falco durante il giorno. L'unico momento in cui si incontrano e hanno entrambi delle sembianze umane è per qualche attimo all'alba. Ecco, Ricarda, tu inizi proprio cosino con una citazione del film che è Dobbiamo vivere, padre da esseri umani. Cosa c'entra Lady Hawk, quindi una storia d'amore impossibile, con le relazioni che oggi costruiamo con il mondo del lavoro? Sì, è la battuta che fa uno dei due al sacerdote che li segue, dicendo, non possiamo più vivere così. Ed è un po' quello che mi è venuto in mente scrivendo questo libro. Noi siamo esseri umani, però in qualche modo pensiamo con incantesimo ci impedisca di essere umani sul lavoro sempre. E quindi è proprio come se noi ci trasformassimo ogni giorno nell'animale lavorativo in questa veste dell'animale lavorativo non riuscissimo a incontrarci mai. Però non è possibile perché in questo modo appunto non ci incontriamo e invece noi abbiamo bisogno di incontrarci. Quindi io penso che da questa trasformazione, quasi da incantesimo, ci possiamo svegliare che questa relazione, questo patto tra persona e lavoro, che adesso è danneggiato oggettivamente, è come una relazione un po' affaticata. Sapete quando stai con qualcuno ma non sai più bene neanche perché ci stai, ci stai per abitudine, se si rompe qualcosa in casa non la giusti. Cioè quando le relazioni si deteriorano, te ne accorgi, perché non da di chi più tempo, più attenzione. La metafora è proprio questa, quella di una relazione che non sta più funzionando da un po' di tempo che però non è detto che si debba buttare via, né è detto che ci si debba restare disinvestendo, che è quello che spesso si fa nelle relazioni che non funzionano. Ecco infatti noi oggi cercheremo proprio di capire come possiamo ricostruire una relazione di senso nuovo, diciamo anche più coinvolgente, più appassionante appunto con il mondo del lavoro. La prima domanda che ti faccio quindi è per forza personale. Da che cosa è scaturita in te l'urgenza di scrivere questo libro, di mettere insieme queste riflessioni, immagino anche alla luce di tanti dati che oggettivamente vediamo nel mondo del lavoro. Quindi vado veloce sui più grandi trend, quindi dalle grandi dimissioni, oltre 2 milioni e mezzo di persone. Solo in Italia, solo l'anno scorso si sono dimesse al quiet quitting, quindi cerco di fare il meno possibile sul lavoro. Ma parliamo anche di talent shortage. Le aziende hanno difficoltà non solo a trovare, ma anche a rimanere attrattive per i loro talenti. Questi sono i dati che vediamo sul mondo del lavoro, scrivendo di economia e di mercato del lavoro. Ma la tua componente personale, quale è stata che ti ha portato a scrivere Cuore e Business? Quanto tempo abbiamo! Io in realtà sono un'imprenditrice oggi, anche se è già la mia seconda vita lavorativa, perché per i primi 15 anni ho fatto la manager, ho lavorato in grandi aziende. Questa relazione d'amore col lavoro ce l'ho da più di 25 anni, di amore odio o comunque di incontro col lavoro. E questa mia relazione col lavoro è andata in crisi quando nella mia vita sono nati dei figli. Quindi questo è successo, la mia prima figlia ha 15 anni e il mio secondo figlio ne ha 12. In entrambi i casi la nascita dei miei figli ha provocato una crisi. E questo mi ha messo di fronte al fatto che la relazione non fosse sana, perché in una relazione sana l'arrivo di un figlio non dovrebbe essere un problema. E quindi ho cominciato a pensare che forse non era un problema solo mio, ma perché se mi è successo due volte su due vuol dire che statisticamente c'è qualcosa di più, perché non penso di essere così sfortunata. E quindi circa 11 anni fa sono uscita dalla mia carriera manageriale e ho cominciato a studiare questo tema a cercare un modo di guardarlo da un'altra prospettiva. Infatti di sotto trovate il mio primo libro che è uscito nel 2014 che si chiama MAM, la maternità è un master. Quindi cominciare a pensare che effettivamente questa relazione potesse trasformarsi anche grazie alla vita. E quindi sono 10 anni che faccio l'imprenditrice, ma per respirare per fortuna posso anche scrivere. Sono una collaboratrice di Alleyoop che è un blog del sole 24 ore che come dico sempre mi obbliga ad avere almeno un pensiero a settimana. E questo aiuta perché è un lusso poter avere almeno un pensiero a settimana che esca dal tuo classico ruolo. Ecco parleremo molto di ruoli oggi perché magari entri nel ruolo dell'imprenditore non pensi di avere lo spazio per poter fare anche un pensiero un po' più riflessivo. Invece appunto il ruolo della contributor di Alleyoop mi ha dato questa possibilità alla fine questo insieme di pensieri è confluito nel libro. Ecco giustamente detto pensiamo di non avere tempo. Io ho letto un dato che mi ha colpito particolarmente tra le tante cose del tuo libro. Cioè tu scrivi, passiamo lavorando più tempo di quanto ne passiamo facendo qualunque altra cosa tranne dormire. 111.704 ore, 13 anni della nostra vita. Dunque a questo punto siamo inevitabilmente il lavoro che facciamo. O esiste un modo per riuscire a creare un discrimine tra quella che è la nostra vita personale e quella lavorativa. O invece la risposta è proprio nel cercare di integrare il più possibile. Ho scritto delle note perché ho detto a Silvia ogni volta che mi fanno una domanda a me vengono in mente 100 risposte tutte insieme. Il che può essere caotico nella risposta. Quindi mi sono fatta delle note su quello che vorrei mettere a fuoco su questa domanda qui che è particolarmente importante. Perché ogni tanto ci domandiamo ma noi siamo il lavoro che facciamo e la vediamo come una cosa negativa. Nel senso che noi non possiamo essere il nostro lavoro. Però anche qui in realtà si può cambiare il punto di vista e pensare che invece il lavoro potrebbe essere noi. Il lavoro potrebbe essere quello che noi siamo. E se il lavoro diventasse quello che noi siamo probabilmente ne trarrebbe un gran giovamento. Perché noi siamo molto di più che solo il lavoro. C'è tutta una dimensione della vita che in questi anni ci siamo abituati a vedere come in conflitto col lavoro piuttosto che invasa dal lavoro. Che in realtà potrebbe arricchire il lavoro facendo in modo che il lavoro diventi noi. E non noi diventiamo il lavoro. Pensate che è una semantica molto sottile ma che cambia radicalmente il punto di vista. Il senso della vita potrebbe invadere il lavoro. In qualche modo l'abbiamo un po' visto con la pandemia. Perché siamo entrati nelle case delle persone. Abbiamo visto una cosa che già si sapeva ma che non avevamo visto. Che tutti abbiamo una vita. Che tutti abbiamo una lavatrice che fa rumore. Che tutti abbiamo dei cani, dei bambini, delle cucine. Quindi la vita è entrata nel lavoro ma potrebbe fare molto di più. Il senso della vita potrebbe entrare nel lavoro. Ecco diciamo che quindi già parti con una destrutturazione rispetto a quello che poi è il pensiero comune. Andando un po' controcorrente. E in realtà questa cosa la ritroviamo. Lo ritrovate in molte altre parti del tuo libro. Adesso cerchiamo di arrivarci pian piano. Diciamo che innanzitutto il libro si articola in quattro ambiti strategici. Tu ci parli di stereotipi. Poi ci parli di emozioni nel contesto lavorativo. Di un altro grande tema che è quello delle donne e il lavoro. E il loro rapporto poi con il potere e poi la leadership. Adesso cerchiamo diciamo di andare verticali su ognuno di questi temi. Però mi piacerebbe poi ascoltare anche le vostre domande. Nel corso della discussione ovviamente voi collezionate pensieri e riflessioni. Perché poi ovviamente torniamo da voi. Allora, parliamo proprio dagli stereotipi. Fondamentalmente lavoriamo e viviamo costantemente immersi in un fluire di stereotipi. Come se indossassimo una maschera. Questo è quello che ci racconti. E allora ti chiedo in questo contesto come facciamo poi effettivamente a ritrovare un'autenticità. Nel lavoro e nelle persone che frequentiamo. Appunto diciamo ma anche in noi stessi in un certo punto. E alzi la mano chi pensa che gli stereotipi sono una cosa buona. Allora in realtà gli stereotipi sono tendenzialmente una cosa buona. Noi siamo abituati a considerarli qualcosa di negativo. Ma perché noi abbiamo bisogno di stereotipi per comprendere la realtà. Gli stereotipi sono le associazioni mentali che ci consentono di comprendere la realtà. Quindi nel primo capitolo di cosa parlo. Il primo capitolo si intitola, non mi ricordo il primo pezzo, però dice chi siamo e perché non ci siamo. Quindi chi siamo noi. Noi siamo definiti da una serie di stereotipi. Ma è giusto così. Nel senso che gli stereotipi sono i ruoli che vestiamo. Quindi quando sono in azienda sono la persona che lavora. Quando sono a casa sono la mamma, sono la sorella, sono la amica. Sono definizioni. Quando è che lo stereotipo diventa negativo? Quando noi evolviamo e lo stereotipo no. Quando le definizioni diventano obsolete. Allora quello che è successo in questi anni è che il mondo è andato molto avanti. Noi siamo diventati sempre più complessi. Abbiamo molte più possibilità di scegliere. Abbiamo vite molto più ricche. Ognuno di noi in media ogni giorno è almeno cinque cose. E se ci pensate, se vi domandate voi quante cose siete in questo momento, neanche in assoluto, ve ne vengono in mente almeno cinque. E vado dall'amicizia, alle relazioni d'amore, alle relazioni lavorative. Come stanno insieme queste cose? Nel primo capitolo parlo proprio di questo. Che storia ci raccontiamo ogni giorno mentre facciamo le cose? Noi abbiamo bisogno continuamente di dirci chi siamo. Però questa cosa del dirci chi siamo scorre sullo sfondo. Non ci pensiamo, non ne parliamo. È un po' come se fosse un dato per scontato. Ecco lì c'è lo stereotipo disabilitante. Quello che ti lascia pensare che se sei una madre sul lavoro sei in difficoltà. Quello che ti lascia pensare che nella vita lavoratina in ufficio non bisogna portare le emozioni. Tutte quelle definizioni sono intese che però noi facciamo fatica perché non ci corrispondono e dobbiamo tenerle fuori. Questo per dire che c'è un lavoro da fare di aggiornamento. Ossia che cosa si può fare con gli stereotipi? Si possono rompere. Si può fare scientificamente, una parentesi, tutte queste cose ve le racconto perché sono più di dieci anni che le studio. Quindi poi nel libro troverete anche fonti scientifiche. Tutte queste cose non sono in miei opinioni, ma è scienza, è così. Gli stereotipi si possono rompere. Si possono rompere per adattarsi meglio alla realtà, per definirla meglio, per essere più utili. Perché lo stereotipo deve essere utile, altrimenti non si usa. Qual è il problema? Il problema è che cambiare una definizione è costoso, richiede uno sforzo. Quindi se io vado in automatico e penso se è bionda, uso degli stereotipi scemi, se è bionda allora magari non è particolarmente intelligente, è lo stereotipo più scemo che mi viene in mente. È un automatismo. E quindi cosa fa? Non ho bisogno di pensare. Al nostro cervello piace molto non aver bisogno di pensare, perché risparmia energie. Se invece devo fermarmi e ragionare meglio e mettere insieme alla realtà, ho bisogno di fare uno sforzo in più. Ecco, questo fatto del costo ci trattiene molto spesso dall'aggiornare gli stereotipi. Però lo possiamo fare. E il guadagno è che tutte quelle parti di noi, che dagli stereotipi vengono tagliate fuori, possono rientrare con noi sul lavoro fare quel lavoro di contaminazione e di arricchimento di cui il mondo ha bisogno. Ecco, al proposito di contaminazione e arricchimento mi viene subito da pensare al grande tema della diversity. Quindi come riusciamo a questo punto, visto che già nelle nostre individualità tu ci dici che è costoso e faticoso riuscire a liberarci da determinati schemi? A maggior ragione, se poi dobbiamo confrontarci anche con delle diversità, come riusciamo veramente ad includere senza escludere? Questo è il capitolo sulle donne, è un titolo molto provocatorio, che è a cosa servono e perché non si fanno avanti. È un titolo volutamente provocatorio, perché che vuol dire le donne a cosa servono? In realtà risponderò a questa domanda. Nel senso, le donne sono interessanti perché sono uno dei casi di diversità più numeroso che esista, quasi un caso unico di minoranza maggioritaria in cui la metà della popolazione può essere definita come minoranza quindi rivelano qualcosa di interessante. Perché quando un segmento di persone della popolazione fa fatica di entrare in un sistema, questo rivela il fatto che il sistema non è aggiornato. Il sistema non è adatto, non sono le donne che non sono adatte, è il sistema che si può aggiornare. Quindi la presenza di un'anomalia consente al sistema di migliorare per tutti quanti. Le donne a cosa servono? Le donne servono perché finché le donne non entreranno con facilità nel mondo del lavoro sarà il segnale che il mondo del lavoro deve cambiare. Quindi perché non si fanno avanti? Questa è l'altra grande domanda che riceviamo sempre, ma tu fatti avanti, lean in, non so se avete presente il messaggio fatti avanti. Il messaggio fatti avanti è un altro di quei messaggi che ha degli impliciti notevoli. Il primo è che io debba per forza entrare in quel mondo lì d è già, vedete, che non funziona più perché se io sono l'anomalia sono qui perché lo devo cambiare quel mondo lì, non devo entrare così com'è. E l'altro è che io non possa fare altro che farmi avanti, non possa per esempio scegliere di fare altre cose, cosa che ultimamente stiamo vedendo con tutte le grandi dimissioni, cioè la scelta c'è sempre ed è un altro modo di cambiare il sistema. Peraltro appunto c'è parlato di diversity legato all'aspetto femminile, adesso ci ritorniamo perché anche lì insomma ci dai un po' di spunti interessanti, ma un altro grande tema secondo me è anche quello generazionale. C'è mai come oggi si parla proprio anche del grandissimo scollamento valoriale tra le nuove generazioni e le generazioni precedenti nel mondo del lavoro. Lì come si ricompone questa frattura? La frattura non si deve ricomponere, deve finire di spaccarsi. Per me il messaggio è questo, il tema dell'inclusione. Pensate alla parola inclusione, le parole dicono tutto. Vai a vedere il dicionario etimologico, ogni parola dentro tutta la sua storia. Includere vuol dire chiudere dentro. Quindi pensate tutte le volte che le aziende fanno le cose per l'inclusione stanno facendo questo, stanno aprendo il recinto per fare entrare e poi chiudere. Non è questo l'obiettivo. L'obiettivo è arricchire attraverso la diversità, perché la natura questo fa. La natura usa la diversità per arricchire il sistema. Quindi l'obiettivo non è chiudere la frattura. E in realtà è lasciare che la frattura ci insegni qualcosa. Non mi ricordo chi l'ha detto, ma è attraverso la frattura che si vede la luce. Voi ricordate chi l'ha detto, però è una citazione molto famosa. È attraverso il punto di rottura che passa alla luce per vedere le cose. Ecco, questo è quello che la diversità può fare. Però noi dobbiamo essere d'accordo che non va chiusa quella frattura, anzi va aperta. Chiarissimo, e peraltro a questo punto mi viene subito un altro collegamento. Perché se noi parliamo di diversità, la diversità è anche il modo in cui affrontiamo determinate sfide, determinati percorsi e dunque anche le emozioni. Qui veniamo al secondo grande pilastro. Ci è stato insegnato soprattutto a noi donne di tenere molto a vada le emozioni sul mondo del lavoro. Questo anche perché rischiamo nel momento in cui magari le esterniamo di essere ritenute particolarmente vulnerabili e fragili. Poi è un discorso che anche in questo caso non ha genere, c'è da tanti punti di vista. Quindi ti chiedo, come dovremmo gestire le emozioni sul lavoro e quanto impatta? Anche la negazione delle emozioni porta a aumentare questo livello di gabbia nel quale oggi ci sentiamo da cui solo alcuni si sono riusciti a liberare con le grandi dimissioni. Ma poi c'è tutto quel magma che invece rimane sotto e che non è detto che siano persone contente del percorso che stanno facendo, anzi. Allora, le emozioni sono un capitolo interessanti, il titolo è come stiamo e perché non ci diamo. Questo è sempre per sintetizzare. Noi ce lo domandiamo quando ci incontriamo, come stai? Di solito rispondiamo bene, però non andiamo mai oltre il bene, perché se uno dovesse veramente rispondere alla domanda come stai, probabilmente farebbe solo quello. Poi io ogni volta che mi chiedono come sto, mi domando come sto e mi blocco, perché vorrei rispondere a un sacco di cose e poi ovviamente anche io rinuncio. Però è una domanda molto importante come stai, che noi ci facciamo, perché noi siamo una specie sociale. Noi siamo una specie sociale, questo vuol dire che noi per sopravvivere abbiamo bisogno degli altri. Noi abbiamo dei neuroni che sono fatti apposta per riflettere quello che sentono le persone davanti a noi. Non è che la biologia faccia le cose a caso, perché ci ha dato dei neuroni fatti così? Perché è essenziale la nostra sopravvivenza, comprendere le emozioni degli altri e provare emozioni, altrimenti non sopravvivremmo. È più importante ancora che saper cacciare di nuovo. Questa è scienza, non sono opinioni, è così. Biologicamente siamo fatti così, vedi che io mi perdo poi. Quindi fondamentamente noi non siamo esseri pensanti che sentono. Non pensiamo prima e sentiamo poi, noi sentiamo prima e pensiamo poi. E quello che pensiamo è collegato a quello che sentiamo. Quindi la domanda emozioni sul lavoro sì o emozioni sul lavoro no, capite subito che è una domanda abbastanza inutile, perché fondamentalmente non è che noi possiamo evitare di sentire, anzi. Quindi, qual è la domanda? In che modo le dovremmo gestire però a questo punto? Perché dobbiamo già scardinare un'educazione che invece ci è stata data. Quindi tieni le emozioni a casa alla fine. Appunto, non si può tenerle a casa e oltretutto le emozioni sono portatrici di energia. Quando noi cerchiamo di tenerle fuori facciamo doppia fatica. La prima fatica è la fatica di far fitta di che non ci siano quando ci sono. E la seconda è non sfruttiamo la potenza. Alla presentazione di Torino è arrivata una domanda, ma se noi usiamo le emozioni non siamo più manipolabili. Mi ha fatto molto riflettere quella domanda, perché in realtà è il contrario se ci pensate. È molto più facile che veniamo manipolati attraverso il pensiero, che vengano manipolate le nostre emozioni. Perché quello che sentiamo è molto più immediato. Quindi, le emozioni ci consentono di darci. E mai come oggi ci differenziano poi da quello che può fare tutto ciò che è il mondo artificiale. Tutto il mondo delle emozioni è un mondo di una potenza enorme che per ora sembra essere irreplicabile dall'intelligenza artificiale. Sembra anche essere un po' la nostra unicità. Quando noi siamo in grado di decidere con informazioni assolutamente incomplete, è perché stiamo usando le nostre emozioni, il nostro istinto. Quindi, mai come oggi, in un mondo così complesso, volatile, incerto e ambiguo, le emozioni sono ciò che ci può consentire di decidere, di stabilire le relazioni e di continuare a cambiare il mondo attraverso il nostro lavoro. Peraltro, a questo punto ci dice che è un mondo estremamente complesso e molto più tecnologico rispetto a prima. Il lavoro è diventato un tutt'uno con la tecnologia. Siamo ormai abituati a lavorare in Smart o comunque appunto in maniera ibrida, a far passare le nostre relazioni professionali da degli schermi. Tutto questo come influisce anche proprio nella gestione delle relazioni e delle emozioni, ovviamente? Poi, chiedo anche a voi se avete delle domande, magari siamo a metà percorso, più o meno, vediamo. Sì, uno dei capitoli si intitola Essere umani nel lavoro ibrido. Cioè, se già era complicato prima, adesso è diventato complicato all'ennesima potenza. Perché facciamo tanta fatica? Perché ci aspettiamo sempre che risolvere le cose debba essere semplice. Cioè, noi cerchiamo sempre il prossimo modello e deve essere un modello che deve arrivare in modo semplice e immediato. Quindi, fondamentalmente, noi siamo entrati in pandemia ed andato tutto online ed era una cosa che sembrava impossibile prima. Prima sembrava che assolutamente non fosse ruponibile il lavoro da remoto. Dopodiché è diventato naturale. Poi cosa è successo? Siamo tornati in ufficio, continuando a tirare questa linea come se tutto dovesse essere sempre naturale. In realtà, oggi si richiede di ripensare radicalmente tutto. Pensateci, io conosco giovani che non sono mai andati in ufficio nel primo anno di lavoro fanno una fatica pazzesca a trovare un senso di appartenenza in quello che fanno. Non è che non riescono a fare il loro lavoro, ma lo fanno solo con quella parte razionale e puramente produttiva. Un po' da macchina, se vogliamo, da macchina pensante. E non c'è tutta quella parte di relazione, di appartenenza, di passione che si può mettere. D'altra parte, non andava bene neanche prima quando sembrava che non si potesse fare altro che arrivare tutti davanti al computer e lavoravi solo se stavi davanti al computer. Quindi, né piano A né piano B. Ma che il piano C non sia un mix confuso dei due. Nel senso che mi fa morire perché noi abbiamo tutte le tecnologie che ci servono per lavorare in modo diverso. Ma non vuol dire che dobbiamo necessariamente continuare a farlo come lo abbiamo fatto in emergenza o come lo facevamo prima dell'emergenza. Vuol dire che richiede un pensiero. Siamo in un momento evolutivo, siamo in un salto evolutivo. La pandemia è stata una transizione sociale che ci mette nelle condizioni oggi di fare le cose in modo radicalmente diverso, di fare delle scelte. Però sono delle cose che vanno pensate, non possono succedere in automatico, non sono semplici. Non c'è una sola leva che puoi tirare perché tutto succeda. Dobbiamo decidere che vogliamo pensarci, che vogliamo discuterne, che vogliamo fare delle politiche, che vogliamo investirci del tempo. E invece c'è sempre questa idea che però bisogna correre quindi si corre tirando una linea dal passato che mette insieme le cose senza farle evolvere. E la pandemia è stato un momento interessante, se ci pensate. Io prima parlavo del congiato di maternità, che era una fase di apprendimento. La pandemia è stato il primo caso nella nostra storia odierna di congedo collettivo e condiviso di tutta la popolazione del mondo. A me capitava di telefonare a qualcuno che magari era in Brasile per la prima volta avevo un tema comune con quella persona. Tutti parlavamo del Covid. Pensate che elemento identitario comune che abbiamo avuto. Come ci ha fatto sentire tutti parte della stessa popolazione? Ci ha messo insieme questo concetto di diversità. C'è stato un elemento che non ha più fatto sentire nessuno diverso. Ci apparteneva, apparteneva a tutti. Quello è uno strato di partenza su cui si possono fare delle scelte nuove enormi se non si cerca di dimenticare che questa cosa è successa, se si sfrutta la transizione. Allora, intanto chiedo a voi se avete delle domande. Appunto vi dicevo noi siamo a metà percorso. Vediamo se si alza qualche mano altrimenti noi intanto andiamo avanti perché proprio parlando appunto di emozioni, di relazioni, tu giustamente prima hai parlato del sentirsi parte di qualcosa. Questo in realtà è un tema che poi sui tavoli di chi si occupa dei char è molto presente soprattutto relazionato alla dinamica dello smart working, della flessibilità, eccetera. Ma soprattutto essere parte di qualcosa significa anche essere parte di un team, di una squadra. Ci erano tempi in cui i nostri colleghi, le nostre colleghe diventavano anche parte delle nostre famiglie, diventavano i nostri migliori amici. Mi ha molto colpito un dato che tu citi nel libro di una ricerca internazionale di Gallup che dice a soli tre anni dalla pandemia abbiamo già il 5% in meno in realtà di opportunità di creare relazioni di amicizia solide e vere nel mondo del lavoro. Ecco, tu questo fenomeno come lo leggi? Credi che avremo la possibilità anche qui di trovare nuove vie in realtà per costruire nuove relazioni anche proprio di affettività nel mondo del lavoro o ci sarà sempre di più un doubt desk da un certo punto di vista? Non so come sarà. Mi piacerebbe far parte di quelli che aiuteranno a ragionare su come sarà, però non lo so. Ho delle grandi aspettative perché credo veramente che siamo in una fase della storia umana in cui abbiamo veramente tante possibilità. Quello che sicuramente il lavoro ibrido mette in crisi in questo momento, ci sta mettendo in crisi. Non ci troviamo, dovremmo imparare delle nuove abitudini, ne prendiamo alcuni aspetti non degli altri. Quindi in questa crisi abbiamo modo anche di vedere quello che ci manca. Forse abbiamo capito nelle riunioni online che cosa ci viene a mancare. Cioè ne accorgiamo che non basta vedersi attraverso uno schermo, viene a mancare tutta la parte corporea, Pensate quando iniziano le riunioni online che succede? Ci avete mai fatto caso? Quei primi 3-4 minuti quando si aspetta che arrivino gli altri? Cosa succede di solito? Si continua a scrivere la mail precedente. Siamo tutti conegati, nessuno guarda gli altri, ognuno cerca di fare le ultime cose. Quando ci si incontra nelle riunioni quei 4-5 minuti prima dell'inizio della riunione, di persona che succede? O almeno succedeva? Si chiacchierava? Le cose più importanti si dicevano all'inizio e alla fine. Quando finiva la riunione finalmente si potevano dire le cose importanti. Questo con l'online l'abbiamo perso. Anzi, io noto che adesso anche nelle riunioni di persona, qualche volta ci consentiamo quei 3-4 minuti di passarli online. Ecco, questo è il passaggio dei comportamenti. Avviene in modo sottile, tende all'ottimizzazione. Pensate alle agende. Cosa è successo alle nostre agende con il libido? È una parola terribile, l'ottimizzazione, perché purtroppo me la sento costantemente. È successo che ogni buco in cui non c'è qualcosa viene vissuto come un vuoto. C'è come se lì non esistesse nulla. Ok? O c'è un appuntamento o quel pezzo dell'agenda non esiste. Ecco, queste sono alcune abitudini che dal mondo digitale stanno arrivando nel mondo reale, non necessariamente migliorandolo. Ci sono delle cose che dal mondo digitale potremmo portare di bello al mondo reale. E' nemmeno in mente una che ho scritto nel libro. Se vi ricordate all'inizio, quando cercavamo di ritrovare un po' di comunanza, perché eravamo insomma in una fase difficile, online, anche nelle riunioni di lavoro, ci mandavamo i cuoricini. Lo ricordate? Capitava mai? Quando qualcuno diceva cosa di bello, potevi mandare il cuoricino. Io lo trovavo tenerissimo, perché quando mai nelle riunioni di lavoro avrei potuto fare il cuoricino. Quindi ho pensato sarebbe bello quando torniamo di persona poter continuare a mandare anche questi segnali un po' più emotivi che sull'online ti ridanno un po' di umanità. Invece ho la sensazione che stiamo facendo esattamente il contrario. Ci stiamo portando nel mondo reale tutte le parti più fredde, più efficientistiche del mondo digitale. E mentre cominciamo ad essere anche in ritardo, c'è un po' di mix confuso. Questo per dire che noi siamo esseri umani. Abbiamo bisogno di stare insieme. Non sempre, quindi non è necessario stare sempre insieme. Credo che prima fossimo un po' esagerati. Però non possiamo neanche sottovalutare l'importanza del contatto umano, perché altrimenti sì che le macchine ci possono sostituire. Perché quasi tutto quello che possiamo fare da remoto può essere sostituito da una macchina, soprattutto adesso che abbiamo l'intelligenza artificiale. Mentre quello che la macchina non può sostituire è quella capacità di intuizione e di relazione che abbiamo con le persone quando siamo insieme a loro. Questo è importante non tanto e non solo per salvare l'essere umano nella sua concorrenza con le macchine, che già questo è un paradosso, quanto perché quella componente è quella che poi ci porta alla famosa sostenibilità. Parliamo tanto di sostenibilità, ma le macchine non ce l'hanno il senso della sostenibilità. Le macchine sono fatte per accelerare, per semplificare, per produrre di più. Tutto questo non è necessariamente sostenibile. Le relazioni umane sono fatte, sono tese alla sostenibilità, per il semplice fatto che la natura ci guida. Quindi noi vogliamo riprodurci, vogliamo far sopravvivere la specie. Se togliamo la componente umana, il lavoro può diventare molto pericoloso. Ricarda, quanto noi siamo poi veramente consapevoli del fatto che c'è bisogno di riportare una nuova umanità nel mondo del lavoro? Tu ci hai scritto un libro, se ne parla sempre di più. Però poi, realmente, no? Provavamo a fare questa riflessione anche poco fa, proprio nel famoso momento umano prima della presentazione, quando ci siamo presi un caffè. Ecco, secondo te poi effettivamente c'è un cambiamento o si sta innescando un cambiamento rispetto a una nuova umanizzazione del lavoro? Voi che ne dite? Alzi la mano o che pensa che si sta innescando un cambiamento? Un commento? Il cambiamento direi che è abbastanza sotto i nostri occhi. Cioè, non è che tutto questo due anni di esperienza che abbiamo passato, tutto quello che si dimentica, si fa... Probabilmente è inconscio in noi d è in qualche maniera sta facendo la sua strada nel sistema. Quindi, chi se ne accorge più consciamente, chi semplicemente lo subisce, ma avviene. Cioè, di fatto succede. Succede un po' dappertutto, succede anche nelle scuole, succede ovunque. Quindi questo è un fatto che non ci possiamo più dimenticare. Anzi, magari cinque anni da adesso diremo quando è che è successo tutto questo scopriremo che è successo sulla base di questa esperienza che abbiamo fatto. Io penso questo almeno. Quindi ci sono comunque dei processi che si stanno sedimentando in noi in qualche modo. Poi da lì traiamo le risposte, diciamo. Allora, io sono d'accordo, il cambiamento è inevitabile. La scelta che possiamo fare è farne parte, resistere. Ci può anche resistere, avverrà lo stesso. Quindi saremo gli ultimi che ci arrivano e magari non lo avremo promosso in modo particolare. O possiamo dargli forma. Cioè, questa cosa che è un po' inconsapevole, potrebbe diventare... È difficile rendersi conto di essere nella storia mentre sia nella storia. Quando si leggeranno i libri di storia di questi anni, si racconterà della pandemia, si racconterà di come ha cambiato la storia dell'umanità, si racconterà anche della tecnologia dei cambiamenti che stanno avvenendo. Ma tutto questo, e qui c'è il concetto di adultità, di cui parliamo dopo, non avviene sulle nostre teste, avviene attraverso di noi. Cioè, quello che io credo profondamente è che noi esseri umani siamo autonomi. Ognuno di noi ha un'area di potere molto forte per far succedere le cose intorno a sé. Io lo sto sperimentando in questi anni anche solo il fatto di aver potuto scrivere un libro. È una forma di potere, nel senso di poter far succedere le cose. Quindi il senso è questo. Il senso è, la consapevolezza è costosa, perché richiede di riflettere, richiede di farsi delle domande, rallentare, ma secondo me aumenta il gusto e il senso di potere che noi possiamo avere sulle nostre vite. E visto che hai parlato di adultità, allora a questo punto io procederei proprio su questo aspetto, perché tu parli di adultità, il riferimento al grande tema della leadership. Adesso stiamo assistendo a un cambiamento straordinario, in ciò che intendiamo, in quello che è l'immaginario stesso del leader. La maggior parte delle persone, peraltro che hanno lasciato il lavoro, molto spesso l'hanno fatto, oltre che per una questione di conciliazione e lipoce arriviamo, ma anche perché in realtà avevano problemi rispetto al proprio leader, rispetto a una leadership tossica. Cosa sta succedendo alle leadership? Perché se è vero che noi dobbiamo diventare più responsabili e quindi adultità sul lavoro, dall'altro lato però è anche vero che in chi ci guida in questo momento è necessaria un'evoluzione. Comunque c'è sicuramente una sfida, no? Io ho un problema con il concetto di leadership, faccio molta fatica proprio con la parola leadership, perché secondo me negli anni è diventata una gabbia ancora più gabbiosa della maggior parte. Ogni parola, ogni definizione è una gabbia, in senso buono e in senso cattivo. Come ho detto prima, le definizioni definiscono, semplificano, spiegano, fanno sentire al sicuro, ma al tempo stesso si portano dietro dei pezzi che non sempre sono aggiornati. Leadership è probabilmente una delle più pericolose. E a me piace di più la parola potere. E che è un'altra parola che invece tendenzialmente alle donne, per esempio, non piace per niente. Però potere in realtà è una parola bellissima. Alzi la mano chi di voi ha potere. Alzi la mano chi di voi ha responsabilità. Quindi, se si ha responsabilità senza avere potere, la situazione è molto difficile. Fondamentamente, ovunque noi abbiamo responsabilità, quella è un'area di potere. Questo è il potere che ho in mente io. È il potere di chi sente di avere delle responsabilità. Ecco, in questo sono partita per la tangente, come al solito. No, lo faccio sempre. Quindi questo per dire, il capitolo sui leader si chiama leader che sente di avere delle responsabilità. Sui leader si chiama leader che senso danno e perché non bastano. Perché non bastano. Pensate anche a questo concetto di dipendenti. Noi quando entriamo nel mondo del lavoro, diventiamo dipendenti. Menniamo chiamati così, di nuovo le parole. Cosa vuol dire che dipendiamo? Vuol dire che siamo lì ad aspettare che arrivi il leader che ci dice cosa dobbiamo fare. Tutti i servizi, anche nel ambito di risorse umane, sono tesi a servire, cioè a spiegare alle persone cosa devono fare, formarle perché lo facciano meglio, dargli le politiche, come se le persone fossero dipendenti. Quanto lontano si può andare in un mondo complesso come il nostro, veloce come il nostro, aspettando che sia sempre qualcun altro a dirci che cosa fare o che cosa dobbiamo sapere. Non si può andare più molto lontano. Quindi non è più possibile questo concetto di leadership top down. Infatti si parla di leadership diffusa, leadership gentile. Ecco, anche questo, perché c'è bisogno di dire gentile? Perché allora quando non è gentile com'è? Cioè vuol dire che di fondo la leadership è cafona poi c'è un ristretto numero di leader che sono gentili quindi loro li chiamiamo gentili perché sono diversi agli altri, no? Buffo, abbastanza buffo. Ecco allora, noi siamo adulti. Noi siamo adulti abbastanza presto. Cioè già verso i vent'anni cominciamo ad essere giovani adulti, poi ci sono gli adulti adulti, poi ci sono i grandi adulti, io sono nella seconda età adulta, tra un po' arrivano nella terza, ma siamo adulti e siamo adulti anche quando siamo sul lavoro. Non siamo adolescenti. Io credo che possiamo rifondare la relazione col lavoro proprio con quest'ottica, nelle coppie. Se uno dei due è sempre lì che aspetta l'altro deve sempre dare, spiegare e guidare, la relazione non funziona. La relazione deve essere paritaria. Un'altra cosa che mi fa ridere quando si parla dei manager, per cui i manager cosa devono fare per i loro collaboratori? Devono essere caring, devono saper ascoltare, ma ai collaboratori verso i manager? Se la relazione è paritaria, vuol dire che io posso dare ricevere nella stessa misura. C'è tutto un mondo di formazione da aprire su come i collaboratori, non li chiamo dipendenti, potrebbero trattare i manager, ma solo per cambiare la prospettiva, per ridare potere. Questo è il potere di cui ho in mente risposta. Assolutamente. E soprattutto all'inizio ho detto che in questo libro va a sovvertire molti concetti, molti ragionamenti ma non è un'ulteriore dimostrazione, in realtà, d è un concetto che mi è piaciuto moltissimo. Infine, per arrivare all'ultimissimo pilastro che ci manca per raccontare un po' il tuo percorso quasi di consulenza relazionale, diciamo così, parliamo di donne. Anche qui c'è una frase che per me è straordinaria. Tu dici, mettete i figli nei vostri curriculum. Questo perché, ovviamente lo sappiamo tutti, ma faccio un brevissimo inciso, in cui lavora appena una donna su due la motivazione principale per cui le donne non lavorano oggettivamente o comunque raggiungono meno livelli a punti alti di carriera è proprio per la difficoltà nella conciliazione, proprio per la maternità che sia quando è potenziale sia quando poi è reale, è comunque proprio l'elefante nella stanza. E tu ci dici, attenzione, perché in realtà anche quello è un punto di forza per le donne, ma non solo, tra l'altro, no? Allora, intanto, io ho questa fissa per la cura, per il concetto di cura, caring, perché in realtà è un istinto fondamentale della specie. L'ho accennato prima, siamo una specie sociale. La capacità di prenderci cura gli uni degli altri è fondamentale alla sopravvivenza della specie. Se noi smettessimo di prenderci cura gli uni degli altri, non sopravviveremmo come specie. Pensate che l'essere umano è in assoluto quello che alla nascita ha bisogno di cure più a lungo di tutto il regno animale. Nessun altro essere vivente ha bisogno di cure per così tanti anni, e c'è un motivo biologico per questo. Però sono stati trovati resti, che di storia ce n'è, resti e reperti archeologici antichissimi di persone anziane senza denti. Questo vuol dire che sin dalla preistoria noi ci prendevamo cura dei nostri anziani, anche quando non potevano più nutrirsi da soli non sarebbero sopravvissuti se non ci fossimo presi cura. Quindi nella cura c'è un modello di sopravvivenza, un modello di potere fortissimo per la nostra specie, però per qualche motivo quel modello lì in questi anni è stato un po' confinato nell'ambito privato, nell'ambito familiare, nell'ambito sociale, lì ci si prende cura. Qui non c'è bisogno, eventualmente si può essere gentili, ma tendenzialmente è già un di più. Quindi cosa c'è nella cura? Quando io sono diventata madre, sono rimasta molto sorpresa perché ho scoperto che effettivamente mi sentivo molto più forte di prima. Ho fatto un passo in avanti nella mia crescita, ma questa storia non me l'aveva mai raccontata nessuno. Io sono arrivata alla maternità tardi, a 36 anni, pensavo che sarebbe stato un evento neutrale. Molte donne non ci arrivano, ci arrivano male, perché invece sono proprio spaventate, ancora oggi in Italia di avere figli, e hanno ragione ad essere spaventati perché appunto una donna su tre non rientra nel mondo del lavoro anche chi rientra entra con difficoltà. Cosa ce ne stiamo facendo di questa capacità di cura? Non la stiamo vedendo, non la stiamo valorizzando, non la stiamo chiamando ad entrare nella società. Eppure, dall'altra parte, abbiamo bisogno che le persone abbiano competenze soft. Power skills, soft skills, life skills, si chiamano in mille modi diversi, sono quelle competenze come ascolto, empatia, gestione del tempo, presa di decisioni, che sono insostituibili. Ce l'abbiamo solo noi, esseri umani, fanno la differenza in tutto quello che facciamo. Quindi il mondo del lavoro le cerca. Dove le cerca? Ovunque, tranne che nelle relazioni di cura. La relazione di cura è un problema. Occupa spazio, occupa tempo, tienila fuori. Vieni in azienda e fai un bel corso di pittura che così impari ad essere creativa. Vi rendete conto del paradosso? Per cui, non mi ricordo più la domanda. Mettete fili, invece, nel vostro cv. Quindi, se la cosa interessante è che l'anno scorso LinkedIn finalmente, forse lo sapete, dall'anno scorso permette di inserire nel proprio profilo i career gap. Li chiamano gap di carriera. Quindi puoi inserire se hai avuto una maternità, una malattia, un viaggio intorno al mondo. E puoi anche elencare le competenze che hai acquisito con quell'esperienza di vita. Questa è una rivoluzione. Una rivoluzione che a me era in mente un po' di anni fa, ma non solo a me, per fortuna. Non voglio fare quella che c'ha le Dei geniali, anzi. Perché poi, scientificamente è così. Scientificamente, quando qualcosa di grande e complesso nella nostra vita, e diventare genitori è una cosa grande, ma anche diventare caregiver dei propri genitori, ma anche diventare caregiver di chiunque, ma anche una malattia, sono tutti eventi importantissimi che ci insegnano delle competenze potentissime che se il mondo del lavoro non cercasse di tenere fuori o di ignorare, o alla meglio di accompagnare con gentilezza, ma le valorizzasse, si troverebbe un sacco di competenze in più. Quindi mettere i figli nel cv è uno dei modi possibili per evitarsi dei corsi di formazione, che tanto sono inutili perché la formazione esperienziale ha bisogno di pratica. E quale pratica migliore che quella che puoi fare con le persone che ami che ti sfidano ogni giorno a usare le competenze soft come nessun formatore potrà mai fare? La vita maestra, diciamo. La vita è una maestra. Naturalmente, anche quello non l'ha detto mai nessuno. Dicono la storia è una maestra, però non dicono la vita è una maestra. Invece sulla porta del mio ufficio c'è scritto... Ah, vedi? Ecco, questo non lo sapevo. Ok, ok. Così, è così. Ma pensate alla ricchezza di... Pensate, quello che sto dicendo, può sembrare una roba un po' utopistica, ma la realtà, cioè il tema è che tutto questo già succede. Solo che succede, ma noi lo teniamo fuori, lo compartimentiamo, questo pezzo di qua, questo pezzo di là. Quando parliamo di coinvolgimento sul lavoro, parliamo del portare sul lavoro la passione che comunque già esprimiamo in altri posti. Quella che Khan chiama il sé preferito. Ognuno di noi è un sé preferito in determinati momenti dove esprime creatività, coraggio, innovazione. Non necessariamente sul lavoro, ma effettivamente se noi apriamo queste porte un po' di queste risorse, di queste energie, possono arrivare anche al nostro lavoro. Certo. E allora, abbiamo in realtà meno di un minuto, quindi io concluderei, Ricarda, se sei d'accordo, nel leggendo un ultimo passo del tuo libro. Bellissimo. Ci stiamo ammalando perché abbiamo costruito un mondo del lavoro in cui non ci è possibile mostrarlo. Perché come esseri umani siamo diventati grandi e complessi nelle scatole delle vecchie definizioni di lavoro non ci siamo più. E questa potrebbe essere una bella notizia, mentre invece ci sta facendo male. Ci sembra inevitabile indossare la maschera dell'animale del giorno lasciare a casa tutto ciò che conta davvero. Accettiamo ogni giorno che nell'ambiente di lavoro visiano relazioni tossiche, piccole violenze e malesseri. Ci sembra normale essere sempre stanchi, sempre in affanno. La via di fuga che abbiamo trovato è quella di lasciare a casa il cuore, ma il mondo del lavoro ha bisogno del nostro cuore. Non può più farne a meno. Grazie mille, Ricarda. Grazie, Silvia. Grazie a tutti. Grazie a voi. Per te. Sottotitoli creati dalla comunità Amara.org
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